LA PAURA DI SBAGLIARE È CERTEZZA D’ERRORE


In un recente articolo pubblicato su Internazionale (interessantissima rivista che raccoglie i migliori articoli della stampa internazionale, appunto), l’esperta di comunicazione Annamaria Testa ci spiega una pericolosissima “attitudine”: la pervicacia e l’ostinazione nel perseverare nell’errore. “Escalation of commitment”, il termine scientifico
Citando l’analisi di Barry M. Staw, docente nell’università di Berkeley, Testa sostiene che <essere coerenti e perseveranti è un valore. Ma c’è una bella differenza tra essere coerenti ed essere così ciechi e ostinati da replicare un comportamento con tutta evidenza inefficace o immotivato, e da continuare a metterlo in pratica “a ogni costo”. Già: il costo può essere molto alto>.
Una lettura assai condivisibile. Soprattutto in un momento come questo dove la radicalità di alcune nostre posizioni tende ad essere così divisiva. Figuriamoci, poi, se si parte da un errore!
Ecco, l’analisi di Testa, prendendo spunto da alcuni casi storici, raggiunge punti così chiari da sembrare palesi, agli occhi di chiunque: <Siamo di fronte a catene di decisioni - sottolinea lucidamente l’esperta - ciascuna delle quali sembra condurre “fatalmente” alla successiva. E ciascuna delle quali rende più difficile e psicologicamente più costoso tornare indietro. Cambiare direzione, infatti, significherebbe non solo assumersi la fatica di prendere una decisione del tutto nuova, ma anche prendersi l’onere di dichiarare di avere in precedenza sbagliato nel decidere, e di considerare definitivamente perduto tutto l’investimento (tempo, energie, risorse) già effettuato>.
Ecco, dunque, che subentra la “paura di sbagliare”. Spesso, abbiamo considerato questo aspetto solo dal punto di vista dell’ignavia, della non-azione. Il “Chi non fa non falla” di gucciniana memoria. In questo caso, il luogo comune viene posto sotto nuove condizioni e come scatenante altre e differenti conseguenze. Perché questa “paura di sbagliare” sembra vissuta più che altro come elemento agonistico, come incosciente strumento di reiterazione del danno. Come se il nostro vivere fosse unicamente legato ad una competizione. Ma se “sbagliare” fosse semplicemente “sbagliare”? Ma non nell’accettazione bambinesca del tutto è possibile ma, partendo comunque da lì, accettare da adulti che anche l’errore sia possibile. Perché ciò che dovrebbe fare un adulto sarebbe conservare nel proprio intelletto e nella propria anima quell’informazione, quella consapevolezza di aver fatto un errore per evitare di ripeterlo. Senza aggiungere aggravio “psicologico” a ciò che può essere semplicemente un errore, dunque rimediabile.
La chiosa a cui giunge Annamaria Testa, va in tal senso: <Risultato: si cerca di dare la colpa del fallimento a cause esterne e imprevedibili. Ci si adopera per razionalizzare le decisioni precedenti, dimostrando che erano necessarie, o le migliori possibili, e magari manipolando quanto basta le informazioni a disposizione. In sostanza, nota Staw, è proprio il bisogno di dimostrare a noi stessi e agli altri di essere competenti e di stare dalla parte della ragione a intrappolarci paradossalmente (e anche definitivamente e irreparabilmente) dalla parte del torto>.

E non ci si sente nel torto nel condividere questa analisi.



Massimo Sampaolesi






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