Cronaca di un fallimento annunciato
di Stefano Brunetti
14 punti in 21 partite, frutto di 8 pareggi e 2 vittorie, con ben 11 sconfitte sul groppone: questi nel complesso i numeri del Bologna del Pippo Inzaghi, che con la debacle casalinga contro il Frosinone ha di fatto segnato il suo addio, già nell'aria da un mesetto buono e in cerca solo di un pretesto per essere formalizzato.
Dicevamo dei numeri: 16 goal fatti (peggior attacco insieme al Frosinone, che ha recuperato col poker), 34 subiti (dato in vertiginoso aumento) ai quali si somma (si fa per dire) il numero zero alla voce "vittorie esterne", trend ereditato dalla precedente gestione e condotto fino all'anno nuovo, per il complesso di un terzultimo posto in classifica, a -3 dall'Empoli (grazie Genoa), che risulterebbe ad oggi fatale, in chiave retrocessione, per il sodalizio felsineo.
No, non era arrivato per questo Filippo Inzaghi, preso nell'estate scorsa per aprire un nuovo ciclo, dopo quello di Roberto Donadoni (che già aveva pagato un girone di ritorno tra i peggiori della storia rossoblu, con soli 15 punti all'attivo) e capace invece di abbassare ancor di più l'asticella, con il misero bottino di 13 punti nel girone d'andata a far da testimone.
La rivoluzione del mercato estivo, con i tanti addii eccellenti, ma anche l'arrivo di giocatori mirati, voluti da Pippo per il suo 3-5-2; la vittoria in Coppa Italia col Padova, per far morale e iniziare al meglio la nuova stagione, al suon di "scordiamoci il passato".
Dzemaili capitano, Pulgar regista e Palacio da "uomo degli ultimi venti minuti" ad asse portante della squadra, di fianco a Santander. Poi l'esordio in campionato e le certezza di una stagione da vivere fin da subito in salita: la sconfitta con la Spal in casa, all'esordio, seguita dal pareggio a reti bianche fuori col Frosinone.
Tonfo in fila con l'Inter in casa ed a Genova con la metà genoana, con la panchina che alla vigilia della quinta già traballa: poi quell'incredibile vittoria in casa con la Roma, per 2-0, contro una squadra in difficoltà, ma reduce comunque da una semifinale di Champions. Sembra l'inizio di nuovo campionato: allo Juventus Stadium c'è una sconfitta onorevole, in casa contro l'Udinese il secondo successo casalingo di fila, per giunta in rimonta (l'ultimo della sua gestione).
La sconfitta di Cagliari riporta tutti coi piedi per terra. Il pareggio in rimonta contro il Toro, al Dall'Ara, lascia ben sperare; quello col Sassuolo convince meno, ma è pur sempre un punto guadagnato. Anche l'Atalanta passa a Bologna, ma contro una signora squadra come quella bergamasca gli allarmismi sarebbero fuori luogo. Delle due è l'ennesimo pareggio contro il Chievo (sempre per 2-2), squadra in palese difficoltà e protagonista di più cambi in panchina, che fa preoccupare.
Le voci di esonero tornano: dopo il naufragio di Genova, contro la Samp per 4-1, si fanno sempre più insistenti. La vittoria di Coppa contro il Crotone è un contentino che non interessa a nessuno; la sconfitta di Empoli, per 2-1, sembra il capolinea definitivo. Si profila già il testa a testa Donadoni-Mihajlovic per la successione, ma ecco intervenire direttamente Joey Saputo, che con un comunicato ribadisce la fiducia nel mister. Contro Milan e Parma si fanno le barricate, due partite orribili che comunque consegnano due punti e tengono blindata la porta. Poi c'è la sconfitta casalinga con la Lazio che fa esplodere i malumori della tifoseria; a Napoli, paradossalmente, c'è il miglior Bologna della stagione, ma alla fine l'hanno vinta gli azzurri per 3-2.
La società conferma il tecnico anche per l'inizio del 2019, mentre l'ombra di Sinisa incombe su Casteldebole: gli arrivi di Sansone e Soriano, giocatori aventi in comune con Pippo il procuratore, sembrano però scacciare definitivamente l'idea del cambio. In coppa contro la Juve si esce a testa alta, poi c'è il pareggio a Ferrara ed infine il patatrac del Dall'Ara nello scontro diretto col Frosinone, con Inzaghi che nel secondo tempo viene di fatto delegittimato dalla squadra, dal pubblico e nel finale pure dal presidente, obbligato al cambio.
Ma che cos'è che è andato storto, nei sei mesi inzaghiani?
Probabilmente la cocciutaggine del tecnico a livello tattico, fisso nel perseguire l'idea del 3-5-2 con interpreti non adatti, con cambio di modulo solo a gennaio, ormai a tempo scaduto. Scelte poi rivedibili nel mercato estivo (su tutte lo scambio Di Francesco-Falcinelli), anche per via di un'intesa non pienamente raggiunta col ds Bigon (che ha più volte dichiarato "questa è finalmente la mia squadra", con la domanda dunque che si pone lecita: ma era anche quella voluto dal tecnico, che probabilmente avrebbe voluto portare con sè mezzo Venezia?) ed infine un rapporto mai sbocciato con alcuni interpreti, uno su tutti Mattia Destro, relegato forse troppo in fretta ai margini della rosa.
Non che questo spieghi appieni i motivi del fallimento, che è come sempre un insieme di colpe e colpevoli, dai quali non è comunque certo esente il tecnico, che a differenza dei suoi predecessori il tempo per esprimersi e tentare di raddrizzare la china l'ha avuto; di certo c'è che il tempo del "fire and desire" è finito, per uno scherzo del destino in giorni di nebbia e freddo, cioè la completa antitesi del fuoco e desiderio. Che nonostante i tanti proclami estivi, durante questi mesi, s'è visto in realtà ben poche volte.